LAURA CAPUOZZO

L’AMERICA E L’ESTETICA DELLA TRASPARENZA

Le immagini di Andy Warhol

Premessa
Ogni espressione artistica moderna ha rappresentato una particolare contraddizione: quella tra l’apparenza e la realtà. Sebbene nel Novecento l’arte abbia avanzato verso l’annullamento di questo rapporto duale, fino a spingersi alle interpretazioni dell’astrattismo di Kandinskij e Malevic,è la pop art, con Andy Warhol in testa, a sancirne il divorzio definitivo, facendo scomparireentrambi i termini dell’equazione.
Potrà sembrare strano, perciò, notare come – invece – una “fame” d’immaginario caratterizzi lasuaproduzione artistica, la necessità di cercare l’identità dell’immagine dietro e oltre l’apparenza in cuigià allora si celava la società, “la figura che ci distoglie e ci ossessiona”, direbbe il filosofo francese Jean Baudrillard1.
Warhol ha abolito l’illusione dell’immagine, la distanza che la separava dal reale. Rendendola trasparente.
E’ proprio sul filo della trasparenza che si possono collocare le immagini dell’artista americano.
Le ragioni si possono leggere nelle sue stesse dichiarazioni*.
“La ragione per cui dipingo è che voglio essere una macchina… Se volete sapere tutto di Andy Warhol, non avete che da guardare la superficie dei miei quadri(…). Eccomi,  nulla è nascosto.”
Quello che la critica definisce “snobismo macchinale” è fattore che lo caratterizza come artista che ha voluto negare, con le sue opere, non solo dell’oggetto, ma lo stesso soggetto autorale.
Rendendo le sue immagini puri prodotti visivi, ha fatto sì che esse riuscissero a liberarsi di ogni significato trascendente rispetto al visivo, rinunciando a qualsiasi pretesa di interpretare la realtà e lasciandola trasparire per quella che è.
Warhol non ci restituisce il tremito del mondo perchè non lo interiorizza, al contrario lo riproduce, lo copia. Svelando la realtà senza illusioni e velature.
Il processo che permette a Warhol tale operazione di dis-velamento consiste nello scegliere semplicemente una delle tante immagini, uno dei tanti spezzoni oggettivi già in circolazione e ri-figurarlo.
Viene da chiedersi quale sarà allora il valore di un’immagine che viene fuori da un processo di imitazione metodico della realtà. Perché, costruire un doppione di qualcosa che risulta a noi più che
conosciuto, porta sempre con sé un sospetto di inutilità.
Si dice che con Warhol la copia ha soppiantato l’originale, facendo perdere l’aura dell’uno a favore di tutte le altre immagini. 2
L’arte che, per la prima volta, passa dall’originale alla ripetizione e alla serialità, rispecchia perfettamente la modernità e, spesso, anche la banalità del mondo, caratterizzata dai clichè
formativi, spersonalizzati e meccanici dei mass media.
E’ importante considerare che i media, per spingere il pubblico al consumo di beni e servizi, devono far leva sull’immaginario collettivo: quell’insieme di pubblicità, fumetti e icone da cui Warhol ha tratto ispirazione.
Le sue immagini, infatti, nascono, albergano, e si rivolgono all’immaginario collettivo americano.

Tuttavia, all’interno della mitizzazione in chiave pop della sua figura e delle sue opere, così come nella lettura dei suoi aforismi e della sua filosofia, la conseguente riduzione dello statuto delle sue immagini a messaggio-simbolo-simulacro della realtà americana, appare una forzatura – se non sbagliata – quantomeno sospetta.
E’ opinione diffusa che Warhol abbia rappresentato l’America senza giudizi e senza scelte, con l’atteggiamento gelido e passivo di un pubblicitario, interessato unicamente ai “valori” della Business Art, la fama, il mercato e l’efficacia della comunicazione di massa. Ed è interessante notare che la sintesi di banalità e artificialità, corrispondente alla divulgazione che ne ha fatto la critica d’arte, ha incoronato “mito” piuttosto che l’artista, l’insieme degli oggetti stessi da lui raffigurati.
Da questo punto di vista, la mitizzazione ha irrigidito le immagini come icone e Warhol come artista.
La critica concorda inoltre sull’atteggiamento di assoluta “neutralità” nei confronti dei suoi soggetti-oggetti, basando la sua analisi sulla più volte ribadita volontà da parte dell’artista di
astenersi da ogni giudizio critico.
Il peso di queste considerazioni, volte a rilevare l’assoluta passività documentativa di Warhol si devono, per citare solo un esempio, alla lettura della sua opera in chiave di “realismo
documentaristico”, come estremizzazione dell’estetica realista da parte di Achille Bonito Oliva.
A questo punto, sembra giusto ricordare che proprio in un’intervista con Achille Bonito Oliva, Warhol spiega il suo debito nei confronti di Giorgio De Chirico: “Ho sempre amato molto i suoi lavori. Mi piace la sua arte e poi quella idea di ripetere sempre e
sempre gli stessi dipinti. Mi piace molto quest’idea, e ho pensato che sarebbe magnifico farlo. […] De Chirico ha ripetuto le stesse immagini per tutta la vita. Credo che l’abbia fatto non soltanto perché i collezionisti e i mercanti d’arte glielo chiedevano, ma perché gli andava di farlo e considerava la ripetizione un mezzo per esprimersi. Probabilmente è questo che abbiamo in comune… La differenza? Quello che lui ripeteva regolarmente anno dopo anno, io lo ripeto lo stesso giorno nello stesso dipinto […]. È un modo per
esprimere me stesso!… Tutte le mie immagini sono la stessa cosa… ma sono anche molto diverse… Cambiano con la luce dei colori, col momento e l’umore… La vita non è forse una serie di immagini che cambiano mentre si ripetono?”
La compresenza dei temi di ripetizione e passività ha dato, quindi, l’impressione di poter fornire una prospettiva univoca e auto legittimante circa la sua opera, ma l’abitudine a certi luoghi comuni
della critica d’arte diventa una sorta di strettoia che non solo filtra il rapporto con le sue opere più “comuni” ma attraverso cui risulta anche difficile far passare l’intera produzione dell’artista americano.
Non scorgendo l’ambiguità che spesso si nasconde dietro le sue stesse dichiarazioni e tralasciando al contempo tutte le opere che non confluiscono direttamente nella visione cinica e spietata che gli è stata attribuita, si corre il rischio di cadere all’interno di quella “monotonia” di interpretazioni che considerano la sua figura esclusivamente illuminata dai riflettori della Pop Art americana.
Non credo sia forzato, allora, provare a leggere le opere di Warhol dissociando il concetto di ripetizione e la tecnica della riproduzione seriale dalla frase “non c’è nulla dietro queste
immagini”. Un’analisi, in altre parole, rivolta non tanto alla banalità e alla mondanità dei suoi soggetti, ma alla loro “trasparenza”.
“Trasparenza” non vuol dire superficie, implica – invece – una visione profonda, che può forse permetterci di rivalutare “l’eroe gelido dell’anti-pathos” come portatore di uno sguardo capace al
contrario di penetrare l’immagine.

Tale premessa si è resa necessaria per chiarire l’intento di leggere la figura di Warhol e le sue immagini estraniandosi dai giudizi della critica recente, che sembra aver chiuso entrambi in un’interpretazione esclusivamente sociologica. Assumere un punto di vista “estraniato” può permettere, infatti, paradossalmente di cogliere più da vicino l’immagine warholiana e il suo valore
nella storia dell’arte americana e mondiale contemporanea.

“Un’immagine estraniata- afferma Brecht – è un’immagine che permette di riconoscere chiaramente l’oggetto rappresentato, che pure appare come qualcosa di estraneo”.
In effetti, gli oggetti raffigurati da Warhol si collocano ben oltre la loro riconoscibilità immediata, pur essendo in simbiosi con l’immaginario del tempo.
L’adesione warholiana alla contemporaneità americana rappresenta un terreno concettuale che, nonostante sia già stato battuto, è soggetto a non pochi errori d’interpretazione.
L’artista dichiara: ”sento di essere parte del mio tempo almeno quanto i missili e la televisione”.
Warhol si rende conto che l’immaginario legato agli oggetti che lui stesso rappresenta, aveva ormai assunto il controllo totale della rappresentazione visiva e dell’esperienza pubblica. Nella cultura di massa, infatti, la base materiale dell’esperienza non è il consumo fisico ma il consumo visivo di prodotti e immagini.
Warhol stesso ambiva ad avere molte delle cose che l’America poteva offrire, quella ritratta dai
film, dalla radio, dai periodici, dai giornali: bellezza, la ricchezza e soprattutto fama. Gli annunci pubblicitari dei quotidiani ne catturavano l’attenzione con la loro “promessa di felicità”.
Quella che è stata interpretata come scandalosa “imagerie pop” riporta all’attenzione il concetto di superficie: non vediamo il contenuto dei barattoli di zuppa Campbell (fig. 1), ma solo la loro marca.
In realtà è proprio il riferimento commerciale, che “può farci vedere la zuppa”.
Detto in altri termini, la marca suggerisce allo spettatore una chiave di lettura ben precisa per vedere oltre la confezione, la superficie del prodotto.
E ciò dipende dal fatto che la semplice nominazione del prodotto, essendo questo ben noto a-priori alla collettività, rende possibile immaginare cosa la superficie contiene, perché richiama alla mente
un sapore, un odore, un colore che già con cui l’uomo ha già avuto a che fare.
Resta, tuttavia, l’interrogativo sull’artisticità del prodotto. Lo sguardo è incapace di distinguere tra l’immagine artistica e la realtà, quando si trova di fronte alle Brillo Boxes.
Perché delle cose che l’occhio percepisce come uguali dovrebbero appartenere a categorie diverse?
La differenza tra il prodotto e l’opera non può essere colta tramite la percezione visiva perché avviene, per citare Danto, una “trasfigurazione del luogo comune o banale”.
Nel suo saggio del 1994, “The philosopher as Andy Warhol”, lo studioso spiega che “l’arte mimetica fallisce quando diventa vita”.
Perciò, se si considera l’arte di Warhol un’arte del doppio e della mimesi, la citazione e la ri- presentazione degli oggetti non acquista alcuna valenza artistica.
In realtà, come abbiamo già sottolineato in precedenza, le immagini o gli oggetti presentati da Warhol, pur avendo una loro collocazione nella società dei consumi, sono isolate e trasferite dall’artista in una altro contesto. In tal modo, le immagini e gli oggetti quotidiani, nell’arte della duplicazione e della serializzazione di Warhol, acquistano un significato diverso da quello originario.
Walter Benjamin aveva ricordato come il crollo dell’aura coincida con la creazione del simulacro: ”il culto del divo cerca di conservare quella magia della personalità che da tempo è
ridotta alla magia fasulla propria del suo carattere di merce”.
Il caso di Marilyn Monroe (fig.2) e della sua icona è esemplare, a questo proposito, perché rappresenta – sosterrebbe Baudrillard – “la trasformazione dell’io in icona virtuale”. Un procedimento opposto rispetto a quello dell’icona classica: mentre la prima voleva dare un volto alle figure divine, l’immagine riprodotta della star ne smaterializza la sostanza corporea, la rende virtuale, irreale.
In realtà, il fascino esercitato dai dipinti delle star non è legato tanto al mito che circondava quei personaggi, quanto piuttosto al fatto che la massa ne costruiva le immagini, collocandosi nella
prospettiva di “coloro che consumano le immagini dei divi”.
La star è un’immagine pubblica, ma la sua individualità può anche non coincidere con l’immagine che di lei trasmettono i media.

Nonostante ciò, sostenere che Warhol rende icona Marilyn, trasfigurandola in prodotto-merce- feticcio al pari delle Brillo Boxes (fig.3), è del tutto corretto? Sicuramente l’artista ha messo in evidenza la mitizzazione che riveste le star nella contemporaneità, ma anche ha sottolineato il fatto che l’immagine fornita da lui e dai media è fittizia.
Sembra, piuttosto, che proprio rendendo l’immagine più virtuale e artificiale possibile, Warhol nasconda il tentativo, che emerge anche dai suoi autoritratti, di mantenere segreta l’identità e la
personalità della star.
Warhol sceglierà addirittura di raffigurare solo le labbra di Marilyn, portando al massimo la spersonalizzazione, ma anche nell’immagine del volto si concentra sul trucco piuttosto che
sui caratteri somatici della persona. Forse, proprio l’attenzione al trucco, sottolinea che la superficie, ciò che letteralmente sta sopra, copre il volto, costituendo una maschera che è anche un
impedimento. Warhol ci permette di conoscere non l’essenza, ma solo l’immagine pubblica della star. Ancora una volta, non si può parlare di realtà come di oggettività.: con Warhol l’arte è sempre distante rispetto al reale.
Infine, ricordiamo che paradossalmente, proprio le procedure serigrafiche che permettono la riproduzione seriale, utilizzaate da Warhol, gli hanno permesso di restare entro i confini della
cornice pittorica, salvando così un compromesso con la pittura tradizionale: ”la serigrafia è un metodo altrettanto onesto di qualsiasi altro,compresa la pittura”. E che la serialità risponde ad
un’esigenza precisa, quella della democrazia dell’arte.
“Nel mio fare artistico il dipinto costruito a mano richiederebbe troppo tempo, e comunque non è questa l’età in cui viviamo. I mezzi meccanici sono l’oggi, e servendomene posso fornire più arte a più persone. L’arte dovrebbe essere per tutti.”
L’arte di Warhol ha oscillato, quindi, tra lo sviluppo di mezzi strettamente pittorici e la messa in discussione dell’arte tradizionale, attraverso processi di riproduzione meccanica; non si è mai servito, però, del ready made, dell’oggetto di consumo nella sua inalterata esistenza industriale.
Attraverso gli scandalosi attacchi sferrati dalle sue immagini alla rappresentazione, Warhol ha ridefinito l’esperienza estetica ed ha anticipato, su molti versanti, gli sviluppi futuri della low
culture e del consumismo legato alle immagini. Gli spettatori restano oggi esclusi, come fu con i suoi dipinti, dall’accesso all’interpretazione e alla resistenza critica.
Comprendere Warhol é indispensabile, quindi, per comprendere molti aspetti del mondo in cui viviamo, del quale ci ha offerto inaspettate visioni.
“Quello che mi ha sempre affascinato è il modo in cui la gente può stare alla finestra o in veranda tutto il giorno a guardare fuori e non annoiarsi,ma se vanno al cinema o a teatro subito protestano di essersi annoiati”, forse perché “è molto più eccitante non sapere cosa succederà come quando si stava seduti per ore, e senza annoiarsi, anche se non succedeva niente di speciale.”
Di qui una realissima esperienza emozionale, che la realtà virtuale o televisiva forse non sa più offrirci, se non tramite la finzione messa in scena. E lo choc.

*Le dichiarazioni dell’artista sono tratte da: Warhol A., “La filosofia di Andy Warhol. From A to B and back again”,
Ed. Costa & Nolan, 2008

Note
1 Più volte Baudrillard pone l’accento su come Warhol intenda “fare più reale del reale” scorgendo nella sua figura di artista e nelle
sue scelte estetiche un’anticipazione delle problematiche che saranno sviluppate dal virtuale,quella “allucinante somiglianza del reale a sé stesso”. Egli sostiene che per uscire dalla crisi della rappresentazione è necessario imprigionare il reale nella pura ripetizione e che il progetto in tal senso è di fare il “vuoto intorno al reale, di estirpare tutta la psicologia,tutta la soggettività, per restituirlo alla pura oggettività(…)seduzione in cui si può scoprire l’impresa di non essere più visto(…).Non c’è più apparizione .”

2 Se accettiamo l’interpretazione che di Warhol fa Baudrillard, le sue immagini sarebbero la riproduzione di un “originale assente” e
acquisterebbero la valenza di simulacri. Baudrillard sottolinea come gli oggetti presentati da Warhol non presentino più alcunché di
naturale perché resi feticci, dalla loro riproduzione in immagini, totalmente superficiali e artificiali.

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Pubblicato da lauracapuozzo

Curatrice e critica d'arte - ricercatrice culturale e docente Il mio lavoro e la mia ricerca si concentrano sulle relazioni tra diverse forme artistiche contemporanee e i loro rapporti con le tecnologie emergenti, dall’impatto dei media digitali sull’attività artistica alle arti "biotech".