LAURA CAPUOZZO

Digitale e “sensibilità”

Le immagini digitali, considerate dal punto di vista dell’esperienza, ri-progettano il rapporto interno – esterno in quanto sciolgono il legame col mondo dei sensi: sebbene siano ancora legate al visibile, non lo sono più al toccabile .
Non solo non si danno come “cose”- come quadri, sculture, istallazioni – ma il loro stesso apparire – la loro “parvenza fenomenica” –  non è più legato alla sensibilità.

Ars Electronica Festival 2004: Interactive Plant Growing / Christa Sommerer, Laurent Mignonneau
Ars Electronica Festival 2004: Interactive Plant Growing / Christa Sommerer, Laurent Mignonneau

Una delle principali difficoltà che si incontra nel classificare un’immagine digitale deriva, infatti, proprio dal problema del supporto.
La contemporaneità dell’argomento implica innanzitutto l’uso di termini ancora incerti nella loro definizione.
Il termine stesso immagine  rimanda a contenuti differenti, a seconda del punto di analisi che intendiamo adottare, sia quello dell’estetica o della fenomenologia della percezione, sia esso inteso come “visione” oppure considerato nel suo statuto ontologico come unione tra “supporto fisico” e “contenuto spirituale”.
L’immagine digitale, inoltre, può” incarnarsi,” a seconda delle sue declinazioni anche commerciali, in un insieme di pixel come in una copertina patinata.

Come intendere, quindi, l’opera d’arte e la creatività digitale in base al supporto?

Vero è che questo interrogativo testimonia di una preoccupata sensazione di non-autenticità, di non-opera che accompagna l’immagine digitale, ma è altrettanto vero che le odierne tecnologie digitali hanno sferrato un nuovo attacco alla “sensibilità”
dell’immagine. E quindi anche alla sua credibilità oggettiva. «Si supera così il problema della mimesis come copia fedele e si pone quello dell’ oggettività come credibilità».
Il supporto di un’opera, in quanto elemento reale dell’immagine, non è solo la tela, ma anche la sua superficie, le pennellate e i
colori effettivi. Le pennellate e i segni che delineano i volumi si legano indissolubilmente al contenuto dell’immagine e, sebbene questi elementi non rimandino solo al reale – in quanto il mondo dell’immagine è sempre distante rispetto ad esso – essi ci danno la misura della sua essenza sensibile.

Un’immagine digitale, pur apparendo compatta e fluida all’occhio, è e resta sempre un insieme di punti – i pixel del monitor oppure quelli dati dal retino di stampa – e come tale ben si distingue da una pennellata, che ci dà sempre la sensazione della materia, del gesto della mano che l’ha voluta, e pertanto ci informa sul suo essere sensibile.
Il digitale, potremmo osservare, trasforma l’immagine in un’entità spettrale.
L’”imago” torna ad assumere il significato di spettro, ombra, fantasma prima ancora di significare effige, segno, figura.
Paradossalmente la ricerca di una sempre maggiore precisione nella costruzione delle immagini e quindi anche di loro una maggiore intellegibilità, apre con più forza al problema circa il pensiero della sua “spettralità”, all’in-intellegibile che sta dietro l’immagine, che si fa sempre più “fantasma”, allo stesso tempo, visibile e invisibile.

Di fronte ad una immagine digitale ci poniamo così con diffidenza, con un sistema di attese diverso rispetto ad altri tipi di immagine, la osserviamo sapendo che essa “appare e scompare allo stesso tempo”.
Si potrebbe obiettare che l’invisibile è insito in ogni immagine, è implicito nello statuto stesso dell’immagine, ma è proprio ora – in questo momento, a questo grado di sviluppo tecnologico – che, nel farsi visibile, porta a compimento la soppressione della materialità, al suo essere posta per qualcos’altro.

Se la soppressione del supporto col digitale mette dunque in discussione la valenza stessa dell’immagine, allo stesso tempo si pone un’ulteriore questione. Nell’epoca della sua “riproducibilità tecnica”, per dirla con Benjamin, ma ormai anche della sua costruzione, fruizione e manipolazione infinite, l’immagine assume ruoli e condizioni del tutto diversi.
Ad esempio, il fatto che l’immagine digitale non perda di definizione passando di supporto in supporto, di riproduzione in riproduzione, può portarci a credere che, come con la Pop Art di Andy Warhol, pur nella ripetizione e nell’omogeneità delle rappresentazioni, ogni immagine è e resta un capolavoro, come dichiarava l’artista stesso.
Anzi, da questa prospettiva, egli già lavorava con immagini digitali. Secondo Jean Baudrillard, infatti, la sua è una “immagine senza oggetto, a cui manca l’immaginario del soggetto”, definizione che si presta molto bene anche al tipo di immagine di cui stiamo parlando.
L’immagine digitale, in tal senso, porterebbe a compimento il processo avviato dall’artista polacco perché fa propria, essenzialmente, la riproducibilità, come sua caratteristica ontologica. Destino ultimo della sua “volontà macchinale.”
Sul versante opposto, però, il digitale permette una estrema disponibilità alla manipolazione. Si prenda ad esempio la pratica del fotomontaggio/fotoritocco, che si è da sempre accompagnata alla tecnica fotografica: la stessa pratica, che prima veniva messa a punto “artigianalmente”, con l’ausilio dei novi software di elaborazione di immagini, oggi permette a chiunque di fare, senza sforzi, ciò che prima era di dominio esclusivo dei fotografi. Tuttavia non ci siamo mai chiesti se la fotografia fosse arte oppure no, l’abbiamo sempre considerata un mezzo per realizzare anche immagini artistiche, tenendola forse su un piano differente da quello secolarmente occupato dalla pittura. Come mai, allora, di fronte ad opere d’arte “di derivazione digitale” ci interroghiamo sulla sua valenza artistica? In realtà, sarebbe forse impossibile e inutile fornire una qualche risposta senonchè, avviene oggi, che immagini interamente elaborate al computer, tramite i mezzi sopracitati, pretendono di essere riconosciute e legittimate in quanto opere d’arte al di fuori del mondo nel quale sono nate, quello virtuale.
Proprio il supporto acquista allora una valenza fondamentale,se non risolutiva, nella legittimazione dell’opera d’arte.

Come abbiamo già accennato sopra, definire l’ immagine digitale, vuol dire innanzitutto tener conto di tutte le sue manifestazioni, dalla pagina web, al morphing, al video, al fotoritocco …Tenere conto anche dell’aspetto sensibile, del supporto, come imprescindibile per ogni opera d’arte, vuol dire esaminare anche il caso in cui non è lo schermo a fungere da supporto ma quello in cui l’immagine sia trasferita su un qualcosa di tangibile, come la tela stessa.
Quindi proprio il supporto potrebbe rappresentare un discrimine quando si parla di arte perché permetterebbe di includere non tutte le immagini digitali nell’ambito artistico.
Ma è sufficiente, tuttavia, che l’immagine digitale venga riprodotta su un supporto per essere promossa da prodotto dello schermo, e quindi artificiale ad opera d’arte? Ovvero, se è vero che l’opera d’arte richiede l’intervento diretto dell’artista, anche l’immagine digitale stampata, riprodotta su un supporto diverso dallo schermo, reca in sè l’arbitrio, l’intervento che la legittima quale forma di espressione artistica?

continua…

Pubblicato da lauracapuozzo

Curatrice e critica d'arte - ricercatrice culturale e docente Il mio lavoro e la mia ricerca si concentrano sulle relazioni tra diverse forme artistiche contemporanee e i loro rapporti con le tecnologie emergenti, dall’impatto dei media digitali sull’attività artistica alle arti "biotech".